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Mo se chiamamo ostiantica fa la storia è sempre la stessa:
FUMA UMBÉ FUMA
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IL DIARIO DI ANNA FRANK.
"Spero che ti potrò confidare tutto,
come non ho mai potuto fare con nessuno,
e spero che sarai per me un gran sostegno.
ANNA FRANK, 12 giugno 1942".
Domenica, 14 giugno 1942.
Venerdì 12 giugno ero già sveglia alle sei: si capisce, era il mio compleanno! Ma alle sei non mi era consentito d'alzarmi,
e così dovetti frenare la mia curiosità fino alle sei e tre quarti. Allora non potei più tenermi e andai in camera da pranzo,
dove Moortje, il gatto, mi diede il benvenuto strusciandomi addosso la testolina.
Subito dopo le sette andai da papà e mamma e poi nel salotto per spacchettare i miei regalucci. Il primo che mi apparve
fosti tu, forse uno dei più belli fra i miei doni. Poi un mazzo di rose, una piantina, due rami di peonie: ecco i figli di Flora
che stavano sulla mia tavola quella mattina; altri ancora ne giunsero durante il giorno.
Da papà e mamma ebbi ina quantità di cose, e anche i nostri numerosi conoscenti mi hanno veramente viziata. Fra
l'altro ricevetti un gioco di società, molte ghiottonerie, cioccolata, un "puzzle", una spilla, la "Camera Obscura" di
Hildebrand, le Leggende Olandesi" di Joseph Cohen, le "Vacanze di Montagna di Daisy", un libro straordinario, e un
po' di denaro, così che mi potrò comperare i "Miti di Grecia e di Roma". Che bellezza!
Poi Lies venne a prendermi e andammo a scuola. Nell'intervallo offrii dei biscottini ai professori e ai compagni e poi ci
rimettemmo al lavoro.
Ora devo smettere di scrivere. Diario mio, ti trovo tanto bello!
Lunedì, 15 giugno 1942.
Nel pomeriggio di domenica ho festeggiato il mio compleanno. Fu proiettato un film, "Il guardiano del faro", con
Rin-tin-tin, che è piaciuto molto ai miei compagni di scuola. Ci divertimmo molto e ci trovammo perfettamente affiatati.
C'era una quantità di ragazzi e ragazze. Mamma vuol sempre sapere chi sposerò. Non sospetta nemmeno che sia Peter
Wessel, perché una volta con una gran faccia tosta sono riuscita a furia di chiacchiere a toglierle quell'idea dalla testa.
Lies Goosens e Sanne Houtman sono state per anni le mie migliori amiche. Poi ho conosciuto Jopie de Waal al Liceo
ebraico. Ora è lei la mia migliore amica, e stiamo molto insieme. Lies è più legata con un'altra ragazza e Sanne è passata
in un'altra scuola, dove ha fatto nuove amicizie.
Sabato, 20 giugno 1942.
Per alcuni giorni non ho scritto nulla, perché prima ho voluto riflettere un poco su questa idea del diario. Per una come
me, scrivere un diario fa un curioso effetto. Non soltanto perché non ho mai scritto, ma perché mi sembra che più tardi
né io né altri potremo trovare interessanti gli sfoghi di una scolaretta di tredici anni. Però, a dire il vero, non è di questo
che si tratta; a me piace scrivere e soprattutto aprire il mio cuore su ogni sorta di cose, a fondo e completamente.
"La carta è più paziente degli uomini"; rimuginavo entro di me questa massima in una delle mie giornate un po'
melanconiche mentre sedevo annoiata colla testa fra le mani, incerta se uscire o restare in casa, e finivo col
rimanermene nello stesso posto a fantasticare. Proprio così, la carta è paziente, e siccome non ho affatto intenzione di
far poi leggere ad altri questo quaderno rilegato di cartone che porta il pomposo nome di "diario", salvo il caso che mi
capiti un giorno di trovare un amico o un'amica che siano veramente "l'amico" o "l'amica", così la faccenda non
riguarda che me. Eccomi al punto da cui ha preso origine quest'idea del diario: io non ho un'amica.
Per essere più chiara debbo aggiungere una spiegazione, giacché nessuno potrebbe credere che una ragazza di tredici
anni sia sola al mondo. Neppur questo è vero: ho dei cari genitori e una sorella di sedici anni; conosco, tutto sommato,
una trentina di ragazze di alcune delle quali potreste dire che sono mie amiche, ho un corteo di adoratori che mi
guardano negli occhi e, se non possono fare altrimenti, in classe cercano di afferrare la mia immagine servendosi di
uno specchietto tascabile. Ho dei parenti, care zie e cari zii, un buon ambiente familiare; no, apparentemente non mi
manca nulla, salvo "l'amica". Con nessuno dei miei conoscenti posso far altro che chiacchiere, né parlar d'altro che dei
piccoli fatti quotidiani. Non c'è modo di diventare più intimi, ecco il punto. Forse questa mancanza di confidenza è
colpa mia; comunque è una realtà, ed è un peccato non poterci far nulla.
Perciò questo diario. Allo scopo di dar maggior rilievo nella mia fantasia all'idea di un'amica lungamente attesa, non mi
limiterò a scrivere i fatti nel diario, come farebbe qualunque altro, ma farò del diario l'amica, e l'amica si chiamerà Kitty.
Perché la finzione del mio racconto a Kitty non sembri troppo spinta e grossolana, bisogna che prima racconti
brevemente la storia della mia vita, sebbene a malincuore.
Mio padre aveva trentasei anni quando sposò mia madre che ne aveva venticinque. Mia sorella Margot nacque nel
1926 a Francoforte sul Meno; venni poi io il 12 giugno 1929, e siccome siamo (evviva il giorno della memoria) puri, nel 1933 emigrammo in Olanda,
dove mio padre fu assunto come direttore della Travies N. V. Questa è in stretta relazione con la ditta Kolen E C., che
ha sede nello stesso edificio, e di cui papà è socio.
La nostra vita trascorse in un'inevitabile ansia, perché la parte della famiglia rimasta in Germania non fu risparmiata
dalle leggi antisemitiche di Hitler. Nel 1938, dopo i "pogrom", fuggirono i miei due zii, fratelli di mia madre, che si
posero in salvo negli Stati Uniti. La mia vecchia nonna venne da noi: aveva allora settantatré anni. I bei tempi finirono
nel maggio 1940; prima la guerra, la capitolazione, l'invasione tedesca, poi cominciarono le sventure per noi (evviva il giorno della memoria). Le
leggi antisemitiche si susseguivano l'una all'altra. Gli (evviva il giorno della memoria) debbono portare la stella giudaica. Gli (evviva il giorno della memoria) debbono
consegnare le biciclette. Gli (evviva il giorno della memoria) non possono salire in tram, gli (evviva il giorno della memoria) non possono più andare in auto. Gli (evviva il giorno della memoria) non
possono fare acquisti che fra le tre e le cinque, e soltanto dove sta scritto "bottega ebraica". Gli (evviva il giorno della memoria) dopo le otto di
sera non possono essere per strada, né trattenersi nel loro giardino o in quello di conoscenti. Gli (evviva il giorno della memoria) non possono
andare a teatro, al cinema o in altri luoghi di divertimento, gli (evviva il giorno della memoria) non possono praticare sport all'aperto, ossia non
possono frequentare piscine, campi di tennis o di hockey eccetera. Gli (evviva il giorno della memoria) non possono nemmeno andare a casa di
cristiani. Gli (evviva il giorno della memoria) debbono studiare soltanto nelle scuole ebraiche. E una quantità ancora di limitazioni del genere.
Così trascorreva la nostra piccola vita, e questo non si poteva e quello non si poteva. Jopie è sempre contro di me:
«Non posso far niente con te, perché ho paura che non sia permesso». La nostra libertà è dunque assai ridotta, ma si
può ancora resistere.
La nonna morì nel gennaio 1942: nessuno sa quanto io pensi a lei e quanto ancora le voglia bene.
Fin dal 1934 ero entrata nel giardino d'infanzia della scuola Montessori, e ho poi continuato nello stesso istituto. Nella
Sesta B ebbi come insegnante la direttrice, la signora K.: alla fine dell'anno, nel separarci, eravamo molto commosse e
piangevamo tutt'e due. Nel 1941 mia sorella Margot e io fummo trasferite al Liceo ebraico, lei in quarta e io in prima.
Finora a noi quattro è andata discretamente bene. Ed eccomi giunta alla data d'oggi.
Sabato, 20 giugno 1942.
Cara Kitty,
comincio col dirti che c'è qui una calma deliziosa: papà e mamma sono fuori e Margot con la sua combriccola è andata
a giocare a ping-pong da un'amica.
Anch'io, da qualche tempo, giuoco molto a ping-pong. Siccome a noi "ping-ponghisti", soprattutto d'estate, piaccion
molto i gelati, e il ping-pong fa venir caldo, il gioco finisce quasi sempre con una spedizione dal più prossimo gelataio
aperto agli (evviva il giorno della memoria), cioè da "Delphi" o da "Oase". E' un pezzo che non abbiamo più bisogno di tirar fuori di tasca il
portamonete o i soldi: "Oase" è di solito tanto affollato che nella estesa cerchia dei nostri conoscenti si trova sempre
qualche signore generoso, o qualche adoratore, pronto a offrirci più gelati di quanti possiamo sorbirne in una
settimana.
Penso che sarai un po' stupita a sentirmi parlare di adoratori, giovane come sono. Ahimè, è un guaio che da noi a
scuola sembra inevitabile. Se un ragazzo mi chiede di accompagnarmi a casa in bicicletta e poi attacca discorso, posso
esser certa che costui, nove volte su dieci, ha la brutta abitudine di prender fuoco, e non mi toglierà più gli occhi di
dosso. Dopo un po' di tempo la cotta sbollisce, soprattutto perché io non so che farmene di sguardi infuocati e pedalo
via allegramente. Talvolta, quando la faccenda diventa un po' troppo spinta, e si comincia a parlare di "chiedere a
papà" o di simili sciocchezze, mi metto a volteggiare con la bicicletta, la borsa dei libri cade, e il giovanotto per
educazione è costretto a scendere per raccogliermela; io ne approfitto allora per cambiare discorso.
Questi sono ancora i più innocenti, perché c'è qualcuno che ti spedisce baci con la mano o che cerca di prenderti per
un braccio, ma sbaglia indirizzo senz'altro. Io scendo e rifiuto di stare oltre in sua compagnia, oppure faccio l'offesa e
gli dico chiaro e tondo di andarsene a casa.
Ecco, le basi della nostra amicizia sono poste, a domani!
La tua Anna.
Domenica, 21 giugno 1942.
Cara Kitty,
nella classe Prima B tremano tutti: sta per riunirsi il consiglio dei professori. Metà dei miei compagni non sanno se
saranno bocciati o promossi, e fanno delle scommesse. Miep de Jong e io ce la ridiamo di gusto dei nostri due vicini di
banco che hanno scommesso tutto il loro gruzzolo delle vacanze. "Tu passerai", "No", "Sì", e così da mattina a sera.
Gli sguardi di Miep, che implorano silenzio, e i miei maligni insulti non riescono a riportare i due alla calma.
Secondo me un quarto della classe dovrebbe esser bocciato (ci son tanti somari!), ma i professori sono la gente più
capricciosa che esista, e forse, una volta tanto, saranno capricciosi in senso buono.
Per le mie amiche e per me non ho tanta paura, dovremmo cavarcela. Soltanto per la matematica sono incerta. Insomma,
stiamo a vedere. E intanto ci facciamo coraggio l'una con l'altra.
Coi miei insegnanti mi trovo bene; sono nove in tutto, sette professori e due professoresse. Il vecchio Kepler, di
matematica, da parecchio tempo ce l'aveva con me, perché chiacchieravo troppo; dopo molte ammonizioni mi appioppò
un penso: fare un componimento sul tema "Una pettegola". Una pettegola? Cosa scriverci su? Ma c'era tempo di
pensarci; dopo averne preso nota rimisi il quaderno nella borsa e cercai di stare tranquilla.
La sera, a casa, quando ebbi terminato tutti gli altri compiti, posi gli occhi sul tema del componimento. Rosicchiando la
mia stilografica cominciai a pensarci su: a scribacchiare le solite cose e a distanziare molto le parole per tirarla in lungo
sono buoni tutti, ma il bello era trovare una dimostrazione, decisiva, delle necessità di chiacchierare. Pensa e ripensa,
mi venne un'idea, riempii le tre prescritte facciate, ed ecco fatto. Addussi come argomento che il chiacchierare è
femminile, che io avrei bensì fatto del mio meglio per limitarmi un poco, ma che non avrei mai disimparato, perché mia
madre chiacchierava come me, se non di più, e coi caratteri ereditari c'è poco da fare.
Il professor Kepler dovette rider molto dei miei argomenti, ma siccome nella lezione seguente continuai a chiacchierare
per tutta l'ora, mi assegnò un secondo componimento. Questa volta il tema era "L'incorreggibile pettegola". Anche
questo fu consegnato e per due lezioni Kepler non ebbe a lagnarsi. Ma nella terza la storia ricominciò. «Anna, siccome
continui a chiacchierare, per punizione farai un componimento sul tema "Quà, quà, quà, dice la signorina
Boccadoca".» La classe scoppiò a ridere. Dovetti ridere anch'io, sebbene la mia capacità inventiva quanto a
componimenti sulle pettegole fosse esaurita. La fortuna mi aiutò; la mia amica Sanne, buona poetessa, mi offerse il suo
aiuto per scrivere il componimento in rima dal principio alla fine. Ero felice. Kepler voleva canzonarmi col suo tema
senza senso, io lo avrei canzonato tre volte tanto con i miei versi.
La poesia venne fuori, ed era stupenda. Trattava di una madre anitra e di un padre cigno che avevano per figli tre
anatroccoli; essi venivano uccisi a beccate dal padre perché troppo ciarlieri. Kepler per fortuna stette allo scherzo, e
lesse la poesia, commentandola, nella mia classe e in parecchie altre.
Da allora in poi potei chiacchierare senza aver pensi, anzi, Kepler ci scherzava sopra.
La tua Anna
"Spero che ti potrò confidare tutto,
come non ho mai potuto fare con nessuno,
e spero che sarai per me un gran sostegno.
ANNA FRANK, 12 giugno 1942".
Domenica, 14 giugno 1942.
Venerdì 12 giugno ero già sveglia alle sei: si capisce, era il mio compleanno! Ma alle sei non mi era consentito d'alzarmi,
e così dovetti frenare la mia curiosità fino alle sei e tre quarti. Allora non potei più tenermi e andai in camera da pranzo,
dove Moortje, il gatto, mi diede il benvenuto strusciandomi addosso la testolina.
Subito dopo le sette andai da papà e mamma e poi nel salotto per spacchettare i miei regalucci. Il primo che mi apparve
fosti tu, forse uno dei più belli fra i miei doni. Poi un mazzo di rose, una piantina, due rami di peonie: ecco i figli di Flora
che stavano sulla mia tavola quella mattina; altri ancora ne giunsero durante il giorno.
Da papà e mamma ebbi ina quantità di cose, e anche i nostri numerosi conoscenti mi hanno veramente viziata. Fra
l'altro ricevetti un gioco di società, molte ghiottonerie, cioccolata, un "puzzle", una spilla, la "Camera Obscura" di
Hildebrand, le Leggende Olandesi" di Joseph Cohen, le "Vacanze di Montagna di Daisy", un libro straordinario, e un
po' di denaro, così che mi potrò comperare i "Miti di Grecia e di Roma". Che bellezza!
Poi Lies venne a prendermi e andammo a scuola. Nell'intervallo offrii dei biscottini ai professori e ai compagni e poi ci
rimettemmo al lavoro.
Ora devo smettere di scrivere. Diario mio, ti trovo tanto bello!
Lunedì, 15 giugno 1942.
Nel pomeriggio di domenica ho festeggiato il mio compleanno. Fu proiettato un film, "Il guardiano del faro", con
Rin-tin-tin, che è piaciuto molto ai miei compagni di scuola. Ci divertimmo molto e ci trovammo perfettamente affiatati.
C'era una quantità di ragazzi e ragazze. Mamma vuol sempre sapere chi sposerò. Non sospetta nemmeno che sia Peter
Wessel, perché una volta con una gran faccia tosta sono riuscita a furia di chiacchiere a toglierle quell'idea dalla testa.
Lies Goosens e Sanne Houtman sono state per anni le mie migliori amiche. Poi ho conosciuto Jopie de Waal al Liceo
ebraico. Ora è lei la mia migliore amica, e stiamo molto insieme. Lies è più legata con un'altra ragazza e Sanne è passata
in un'altra scuola, dove ha fatto nuove amicizie.
Sabato, 20 giugno 1942.
Per alcuni giorni non ho scritto nulla, perché prima ho voluto riflettere un poco su questa idea del diario. Per una come
me, scrivere un diario fa un curioso effetto. Non soltanto perché non ho mai scritto, ma perché mi sembra che più tardi
né io né altri potremo trovare interessanti gli sfoghi di una scolaretta di tredici anni. Però, a dire il vero, non è di questo
che si tratta; a me piace scrivere e soprattutto aprire il mio cuore su ogni sorta di cose, a fondo e completamente.
"La carta è più paziente degli uomini"; rimuginavo entro di me questa massima in una delle mie giornate un po'
melanconiche mentre sedevo annoiata colla testa fra le mani, incerta se uscire o restare in casa, e finivo col
rimanermene nello stesso posto a fantasticare. Proprio così, la carta è paziente, e siccome non ho affatto intenzione di
far poi leggere ad altri questo quaderno rilegato di cartone che porta il pomposo nome di "diario", salvo il caso che mi
capiti un giorno di trovare un amico o un'amica che siano veramente "l'amico" o "l'amica", così la faccenda non
riguarda che me. Eccomi al punto da cui ha preso origine quest'idea del diario: io non ho un'amica.
Per essere più chiara debbo aggiungere una spiegazione, giacché nessuno potrebbe credere che una ragazza di tredici
anni sia sola al mondo. Neppur questo è vero: ho dei cari genitori e una sorella di sedici anni; conosco, tutto sommato,
una trentina di ragazze di alcune delle quali potreste dire che sono mie amiche, ho un corteo di adoratori che mi
guardano negli occhi e, se non possono fare altrimenti, in classe cercano di afferrare la mia immagine servendosi di
uno specchietto tascabile. Ho dei parenti, care zie e cari zii, un buon ambiente familiare; no, apparentemente non mi
manca nulla, salvo "l'amica". Con nessuno dei miei conoscenti posso far altro che chiacchiere, né parlar d'altro che dei
piccoli fatti quotidiani. Non c'è modo di diventare più intimi, ecco il punto. Forse questa mancanza di confidenza è
colpa mia; comunque è una realtà, ed è un peccato non poterci far nulla.
Perciò questo diario. Allo scopo di dar maggior rilievo nella mia fantasia all'idea di un'amica lungamente attesa, non mi
limiterò a scrivere i fatti nel diario, come farebbe qualunque altro, ma farò del diario l'amica, e l'amica si chiamerà Kitty.
Perché la finzione del mio racconto a Kitty non sembri troppo spinta e grossolana, bisogna che prima racconti
brevemente la storia della mia vita, sebbene a malincuore.
Mio padre aveva trentasei anni quando sposò mia madre che ne aveva venticinque. Mia sorella Margot nacque nel
1926 a Francoforte sul Meno; venni poi io il 12 giugno 1929, e siccome siamo (evviva il giorno della memoria) puri, nel 1933 emigrammo in Olanda,
dove mio padre fu assunto come direttore della Travies N. V. Questa è in stretta relazione con la ditta Kolen E C., che
ha sede nello stesso edificio, e di cui papà è socio.
La nostra vita trascorse in un'inevitabile ansia, perché la parte della famiglia rimasta in Germania non fu risparmiata
dalle leggi antisemitiche di Hitler. Nel 1938, dopo i "pogrom", fuggirono i miei due zii, fratelli di mia madre, che si
posero in salvo negli Stati Uniti. La mia vecchia nonna venne da noi: aveva allora settantatré anni. I bei tempi finirono
nel maggio 1940; prima la guerra, la capitolazione, l'invasione tedesca, poi cominciarono le sventure per noi (evviva il giorno della memoria). Le
leggi antisemitiche si susseguivano l'una all'altra. Gli (evviva il giorno della memoria) debbono portare la stella giudaica. Gli (evviva il giorno della memoria) debbono
consegnare le biciclette. Gli (evviva il giorno della memoria) non possono salire in tram, gli (evviva il giorno della memoria) non possono più andare in auto. Gli (evviva il giorno della memoria) non
possono fare acquisti che fra le tre e le cinque, e soltanto dove sta scritto "bottega ebraica". Gli (evviva il giorno della memoria) dopo le otto di
sera non possono essere per strada, né trattenersi nel loro giardino o in quello di conoscenti. Gli (evviva il giorno della memoria) non possono
andare a teatro, al cinema o in altri luoghi di divertimento, gli (evviva il giorno della memoria) non possono praticare sport all'aperto, ossia non
possono frequentare piscine, campi di tennis o di hockey eccetera. Gli (evviva il giorno della memoria) non possono nemmeno andare a casa di
cristiani. Gli (evviva il giorno della memoria) debbono studiare soltanto nelle scuole ebraiche. E una quantità ancora di limitazioni del genere.
Così trascorreva la nostra piccola vita, e questo non si poteva e quello non si poteva. Jopie è sempre contro di me:
«Non posso far niente con te, perché ho paura che non sia permesso». La nostra libertà è dunque assai ridotta, ma si
può ancora resistere.
La nonna morì nel gennaio 1942: nessuno sa quanto io pensi a lei e quanto ancora le voglia bene.
Fin dal 1934 ero entrata nel giardino d'infanzia della scuola Montessori, e ho poi continuato nello stesso istituto. Nella
Sesta B ebbi come insegnante la direttrice, la signora K.: alla fine dell'anno, nel separarci, eravamo molto commosse e
piangevamo tutt'e due. Nel 1941 mia sorella Margot e io fummo trasferite al Liceo ebraico, lei in quarta e io in prima.
Finora a noi quattro è andata discretamente bene. Ed eccomi giunta alla data d'oggi.
Sabato, 20 giugno 1942.
Cara Kitty,
comincio col dirti che c'è qui una calma deliziosa: papà e mamma sono fuori e Margot con la sua combriccola è andata
a giocare a ping-pong da un'amica.
Anch'io, da qualche tempo, giuoco molto a ping-pong. Siccome a noi "ping-ponghisti", soprattutto d'estate, piaccion
molto i gelati, e il ping-pong fa venir caldo, il gioco finisce quasi sempre con una spedizione dal più prossimo gelataio
aperto agli (evviva il giorno della memoria), cioè da "Delphi" o da "Oase". E' un pezzo che non abbiamo più bisogno di tirar fuori di tasca il
portamonete o i soldi: "Oase" è di solito tanto affollato che nella estesa cerchia dei nostri conoscenti si trova sempre
qualche signore generoso, o qualche adoratore, pronto a offrirci più gelati di quanti possiamo sorbirne in una
settimana.
Penso che sarai un po' stupita a sentirmi parlare di adoratori, giovane come sono. Ahimè, è un guaio che da noi a
scuola sembra inevitabile. Se un ragazzo mi chiede di accompagnarmi a casa in bicicletta e poi attacca discorso, posso
esser certa che costui, nove volte su dieci, ha la brutta abitudine di prender fuoco, e non mi toglierà più gli occhi di
dosso. Dopo un po' di tempo la cotta sbollisce, soprattutto perché io non so che farmene di sguardi infuocati e pedalo
via allegramente. Talvolta, quando la faccenda diventa un po' troppo spinta, e si comincia a parlare di "chiedere a
papà" o di simili sciocchezze, mi metto a volteggiare con la bicicletta, la borsa dei libri cade, e il giovanotto per
educazione è costretto a scendere per raccogliermela; io ne approfitto allora per cambiare discorso.
Questi sono ancora i più innocenti, perché c'è qualcuno che ti spedisce baci con la mano o che cerca di prenderti per
un braccio, ma sbaglia indirizzo senz'altro. Io scendo e rifiuto di stare oltre in sua compagnia, oppure faccio l'offesa e
gli dico chiaro e tondo di andarsene a casa.
Ecco, le basi della nostra amicizia sono poste, a domani!
La tua Anna.
Domenica, 21 giugno 1942.
Cara Kitty,
nella classe Prima B tremano tutti: sta per riunirsi il consiglio dei professori. Metà dei miei compagni non sanno se
saranno bocciati o promossi, e fanno delle scommesse. Miep de Jong e io ce la ridiamo di gusto dei nostri due vicini di
banco che hanno scommesso tutto il loro gruzzolo delle vacanze. "Tu passerai", "No", "Sì", e così da mattina a sera.
Gli sguardi di Miep, che implorano silenzio, e i miei maligni insulti non riescono a riportare i due alla calma.
Secondo me un quarto della classe dovrebbe esser bocciato (ci son tanti somari!), ma i professori sono la gente più
capricciosa che esista, e forse, una volta tanto, saranno capricciosi in senso buono.
Per le mie amiche e per me non ho tanta paura, dovremmo cavarcela. Soltanto per la matematica sono incerta. Insomma,
stiamo a vedere. E intanto ci facciamo coraggio l'una con l'altra.
Coi miei insegnanti mi trovo bene; sono nove in tutto, sette professori e due professoresse. Il vecchio Kepler, di
matematica, da parecchio tempo ce l'aveva con me, perché chiacchieravo troppo; dopo molte ammonizioni mi appioppò
un penso: fare un componimento sul tema "Una pettegola". Una pettegola? Cosa scriverci su? Ma c'era tempo di
pensarci; dopo averne preso nota rimisi il quaderno nella borsa e cercai di stare tranquilla.
La sera, a casa, quando ebbi terminato tutti gli altri compiti, posi gli occhi sul tema del componimento. Rosicchiando la
mia stilografica cominciai a pensarci su: a scribacchiare le solite cose e a distanziare molto le parole per tirarla in lungo
sono buoni tutti, ma il bello era trovare una dimostrazione, decisiva, delle necessità di chiacchierare. Pensa e ripensa,
mi venne un'idea, riempii le tre prescritte facciate, ed ecco fatto. Addussi come argomento che il chiacchierare è
femminile, che io avrei bensì fatto del mio meglio per limitarmi un poco, ma che non avrei mai disimparato, perché mia
madre chiacchierava come me, se non di più, e coi caratteri ereditari c'è poco da fare.
Il professor Kepler dovette rider molto dei miei argomenti, ma siccome nella lezione seguente continuai a chiacchierare
per tutta l'ora, mi assegnò un secondo componimento. Questa volta il tema era "L'incorreggibile pettegola". Anche
questo fu consegnato e per due lezioni Kepler non ebbe a lagnarsi. Ma nella terza la storia ricominciò. «Anna, siccome
continui a chiacchierare, per punizione farai un componimento sul tema "Quà, quà, quà, dice la signorina
Boccadoca".» La classe scoppiò a ridere. Dovetti ridere anch'io, sebbene la mia capacità inventiva quanto a
componimenti sulle pettegole fosse esaurita. La fortuna mi aiutò; la mia amica Sanne, buona poetessa, mi offerse il suo
aiuto per scrivere il componimento in rima dal principio alla fine. Ero felice. Kepler voleva canzonarmi col suo tema
senza senso, io lo avrei canzonato tre volte tanto con i miei versi.
La poesia venne fuori, ed era stupenda. Trattava di una madre anitra e di un padre cigno che avevano per figli tre
anatroccoli; essi venivano uccisi a beccate dal padre perché troppo ciarlieri. Kepler per fortuna stette allo scherzo, e
lesse la poesia, commentandola, nella mia classe e in parecchie altre.
Da allora in poi potei chiacchierare senza aver pensi, anzi, Kepler ci scherzava sopra.
La tua Anna
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