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venerdì 22 ottobre 2021


Il 4 giugno sono ricorsi i trent’anni della fine delle proteste di piazza Tian’anmen a Pechino. Iniziate a metà aprile del 1989 in seguito alla morte del leader comunista riformista Hu Yaobang, vennero represse dall’Esercito di Liberazione Popolare su ordine del governo comunista che mal sopportava le richieste di maggiore libertà e democrazia.

Nella notte tra il 3 e il 4 giugno le forze armate fecero irruzione nella piazza della capitale con i carri armati e spararono indistintamente sulla folla. Secondo le stime più attendibili, in quei tragici giorni fra duecento e duemila persone persero la vita in quella che venne definita “Primavera democratica cinese”. Decina di migliaia arrestati nei giorni seguenti e condannati come “controrivoluzionari” perché attentavano all’egemonia del partito. Sin dal giorno successivo del massacro, le alte sfere del Partito comunista cinese (PCC) hanno sostenuto la legittimità dell’intervento ed escluso ogni forma di commemorazione ufficiale.

La diffusione dei disordini
Le proteste di piazza Tiananmen furono il frutto di una ricerca d’identità politica della Cina uscita dalla “rivoluzione culturale” degli anni ‘60. All’epoca l’opinione pubblica e l’élite politica volevano introdurre un sistema di equilibrio dei poteri, evitando il ripetersi dei problemi che avevano mandato il paese in rovina. Esisteva un dibattito, all’interno del partito e dell’intellighenzia, su una migliore gestione dell’organizzazione di governo e sulla separazione tra le sue funzioni politiche e quelle esecutive.

Allo stesso tempo, dal 1981, con l’ascesa al governo di Deng Xiaoping, la Cina ha vissuto un decennio di notevole crescita economica e liberalizzazione. Erano state avviate delle trasformazioni economiche che avevano fatto affluire in Cina investimenti stranieri e avevano permesso la nascita di imprese private. Il paese aveva raggiunto un certo grado di ricchezza ma le disuguaglianze e corruzione erano aumentate poiché, all’inizio, era stato permesso di arricchirsi ad una piccola parte della popolazione.

Questo contesto di nuove prospettive, vide dimostrazioni guidate dagli studenti che chiedevano maggiori diritti e libertà individuali alla fine del 1986 e all’inizio del 1987 che. La reazione del Partito Comunista Cinese (PCC) per reprimere quello che chiamavano “liberalismo borghese“, fu dura. Una vittima fu Hu Yaobang, ex- segretario di stato del PCC dal 1980, che aveva incoraggiato le riforme democratiche.

Le proteste
Il catalizzatore delle proteste nella primavera del 1989 fu la morte di Hu Yaobang a metà aprile. Allora Hu era già stato esautorato perché considerato troppo riformista ma studenti e operai volevano che il partito comunista seguisse la sua linea di inclusione. Alla sua morte, fu trasformato in un martire per questa causa e il giorno del suo funerale, il 22 aprile, decine di migliaia di studenti si riunirono in Piazza Tiananmen per commemorare il leader ed esprimere la loro insoddisfazione verso il governo di Pechino.

Studenti provenienti da più di 40 università marciarono sulla piazza il 27 Aprile, dove operai, intellettuali e altri funzionari pubblici li raggiunsero. A maggio più di un milione di persone riempì la piazza, luogo in cui nel 1949 Mao Zedong aveva dichiarato la nascita della Repubblica Popolare Cinese.

Studenti universitari manifestano in piazza Tiananmen a Pechino durante il movimento per la democrazia del 1989. Foto: Reuters.

Manifestazioni simili sono sorte in diverse altre città cinesi, in particolare Shanghai, Nanchino, Xi’an, Changsha e Chengdu. Tuttavia, la principale copertura mediatica esterna era a Pechino, in parte perché un gran numero di giornalisti occidentali vi si erano recati per riferire sulla visita in Cina del leader sovietico Mikhail Gorbachev a metà maggio.

Nel frattempo, seguiva un intenso dibattito tra i funzionari di governo e di partito su come gestire le crescenti proteste. La risposta iniziale del governo fu quella di emettere severi avvertimenti, ma di non intervenire contro la folla. Moderati, come Zhao Ziyang (successore di Hu Yaobang come segretario generale del partito), appoggiarono la negoziazione con i manifestanti e l’offerta di concessioni. Tuttavia, ebbero la meglio i sostenitori della linea dura guidati dal premier cinese Li Peng (recentemente deceduto all’età di 90 anni) e supportati da Deng Xiaoping, che, temendo l’anarchia, insistette per reprimere con forza le proteste. Durante le ultime due settimane di maggio, a Pechino fu dichiarata la legge marziale e truppe corazzate furono inviate per sgombrare la piazza.

La repressione
All’inizio di giugno 1989, il governo era pronto ad agire ma di fronte all’immensa folla presente si ritirarono. Deng Xiaoping, all’epoca capo della Commissione militare, uno dei maggiori leader del paese, diede ordine di fare fuoco.

La notte tra il 3 e il 4 giugno, i carri armati e le truppe dell’Esercito di Liberazione Popolare cinese avanzarono verso Piazza Tian’anmen, sparando o schiacciando quelli che tentarono di bloccare la loro strada. Il risultato fu un massacro il cui “bilancio ufficiale” riporta 241 vittime, ma che, secondo la Croce Rossa, le organizzazioni internazionali, i media stranieri e i testimoni furono molti di più. Il numero effettivo di morti per repressione rimane sconosciuto, ma un diplomatico dell’ambasciatore britannico a Pechino, Alan Donald, dichiarò nel 2017 che l’esercito cinese uccise almeno 10.000 persone.

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